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La Cina ha sempre costruito e mantenuto rapporti commerciali con gli altri paesi del globo terrestre, a cominciare dalla Via della Seta nel 200 a.C. fino alle aziende di oggi come Tencent, Alibaba e Sinopec.

Nel tempo, questi rapporti hanno cominciato a diventare più forti e frequenti con certe nazioni, come l’Inghilterra. Infatti, è verso il 1880 che una piccola comunità di cinesi si insediò nella grande città metropolitana di Londra.

Come forse prevedibile, l’integrazione ebbe bisogno di un assestamento. Infatti, i lavoratori inglesi vedevano  questa comunità con disprezzo, perché temevano di poter essere sostituiti dai nuovi arrivati, disposti a lavorare per salari molto più bassi, e allo stesso tempo per più ore.

Di conseguenza, è proprio in questo periodo che cominciò a diffondersi un sentimento di paura e odio verso la Cina e i suoi abitanti. Addirittura, alcuni paesi arrivarono al punto di emanare delle leggi per limitare l’immigrazione dei soli cinesi. Ne sono un esempio il “Chinese Exclusion Act” del 1882 negli Stati Uniti, il quale impediva ai lavoratori cinesi di trasferirsi nel paese per i dieci anni successivi (mentre quelli già presenti erano considerati persone di seconda classe), e l’ “Aliens Act” del 1905 in Inghilterra, che vietava l’entrata agli stranieri considerati poveri e poco qualificati per svolgere un lavoro e mantenersi da soli. 

 

Questo fenomeno è definito sinofobia, ovvero “la paura e l’antipatia verso la Cina, le sue persone e la sua cultura”. Sebbene questo sentimento risalga alla fine del XIX secolo, ancora oggi è diffuso in tutto il mondo: dai paesi vicini come il Giappone e la Sud Corea, fino all’Occidente come l’Italia, la Germania e gli Stati Uniti. 

Ad aggravare la situazione negli ultimi anni è stato il COVID-19, un virus il cui primo caso è stato individuato in Cina, e che ha poi colpito l’intero pianeta. Gli atti sinofobici erano ormai all’ordine del giorno, tanto che lo stesso COVID-19 venne più volte denominato “virus cinese” oppure “Kung Flu” da parte di Donald Trump; in Giappone i cinesi vennero definiti “bioterroristi”, e in Italia il governatore veneto Zaia affermò la superiorità della cultura italiana, dichiarando che per merito di una grandissima attenzione all’igiene si sarebbe riuscita a contenere l’epidemia, differentemente dai cinesi che “mangiano topi vivi”. 

 Sconfortante.

Anche dopo qualche anno dalla fine del periodo più intenso del COVID-19, sembra che sia impossibile parlare della Cina senza menzionarne il governo. 

Verso il marzo del 2023, il governo americano aveva presentato un’istanza per poter bannare TikTok, una nota piattaforma social cinese, perché considerata una potenziale minaccia alla sicurezza mondiale. Infatti, secondo l’amministrazione americana, l’applicazione era in grado di raccogliere tutti i dati personali degli utenti, rendendoli disponibili al PCC (Partito Comunista Cinese).

Tuttavia, nei confronti di app non provenienti dalla Cina, come Facebook oppure Instagram, ma anch’esse più volte accusate di vendere i dati dei propri utenti, non sembra che ci sia alcun interesse nel vietarne l’uso. Infatti, il reale motivo dell’eliminazione di Tik Tok è principalmente di natura economica: ridurre la competizione cinese. Ciononostante, i membri del congresso non hanno perso l’occasione per mostrare atti sinofobici anche durante l’udienza del CEO di Tiktok Shou Zi Chew. Infatti, le domande erano principalmente incentrate su che tipo di rapporto avesse ByteDance con il PCC. Oltre a ciò, venne dimostrata anche un’enorme mancanza di rispetto nei confronti di Shou Zi, che veniva spesso interrotto mentre rispondeva. 

 

Anche quando si tratta di trend esportati dalla Cina, questi vengono subito attribuiti a paesi vicini come il Giappone e la Sud Corea.

Un esempio recente è il make-up “douyin”, chiamato così proprio perché nato dalla versione cinese di TikTok. È principalmente su questa piattaforma che il trend viene spesso erroneamente definito coreano oppure giapponese. Altri esempi di errore di attribuzione riguardano il “tanghulu”, l’ “hanfu” e in generale il mondo della cosmesi cinese.

È vero che da una parte questa assegnazione erronea è spesso involontaria, ma dall’altra bisogna riflettere sul perché è sempre e solo ciò che proviene dalla Cina ad essere attribuito ai paesi vicini, mentre non accade mai il contrario.

 

Addirittura, certe aziende cinesi sono arrivate al punto di nascondere la loro origine dietro brand di diversa etnia. È il caso del retailer MINISO, una catena di negozi specializzata nella vendita low-Costner di cosmetica, cancelleria, giocattoli e prodotti casalinghi. Nei primi anni dalla sua fondazione venne infatti pubblicizzato come un brand giapponese, arrivando al punto di inserire una variante del logo in “katakana” accanto a quella classica. È soltanto verso il 2020, e dopo diverse critiche, che il brand cinese si scusò per aver commercializzato la propria vendita come giapponese. 

 

Per riassumere, è possibile affermare che la sinofobia, così come la xenofobia, è una discriminazione che affligge l’intero globo terrestre, ma di cui purtroppo si parla poco. Anzi, sembra che questo odio generale, e senza una base razionale, si stia diffondendo sempre di più negli ultimi anni. Per risolvere questo problema, è dunque importante ricordare che la Cina non è solo il governo cinese, e che quest’ultimo non coincide in alcun modo con la sua popolazione e la cultura. 

Mettiamo le persone al centro e comunichiamo: questa è l’unica prospettiva rosea in un mondo sempre più ostile.

Alessia Liù