Daniele non tornava in quel posto da almeno dieci anni. Era un bambino allora e ricordava solo frammenti confusi: sentiero fangoso, il rumore del vento tra gli alberi, una casa con finestre chiuse e un odore strano che non aveva mai saputo spiegare. Ora era tornato perché suo padre era morto e aveva lasciato quella casa a lui.
L’avvocato aveva parlato di “eredità”, “pratiche da firmare”, “fabbricato in stato di abbandono”. Tutto sembrava semplice. Doveva solo dare un’occhiata, decidere cosa farne e tornarsene a casa. Ma appena era arrivato al paese vicino, qualcosa aveva cominciato a stonare.
La gente non parlava volentieri della casa. Quando Daniele diceva l’indirizzo, gli sguardi cambiavano. Qualcuno gli rispondeva in fretta, altri cambiavano argomento. Una vecchia, alla fermata dell’autobus, si era persino fatta il segno della croce.
Daniele aveva pensato che fossero solo superstizioni da paese. Ma quando il GPS aveva smesso di funzionare e il telefono aveva iniziato a perdere campo, aveva cominciato a sentirsi nervoso.
La casa era proprio come la ricordava, ma più grande e più silenziosa. Si trovava alla fine di una strada sterrata e oltre non c’era nulla: solo boschi, alti e scuri. Era l’ultima costruzione prima del nulla. E sembrava che stesse aspettando qualcuno.
Appena scese dalla macchina, Daniele sentì il freddo. Non era un freddo normale, da pioggia o da vento. Era un freddo che veniva da dentro la terra, come se il posto fosse vuoto da troppo tempo. Eppure, quando spinse il portone, questo si aprì subito. Nessuna chiave, nessuna ruggine. Solo un cigolio.
Dentro era tutto coperto di polvere. Ma non c’erano segni di rovina. I mobili erano a posto, come se qualcuno li avesse lasciati lì il giorno prima. C’erano ancora i quadri alle pareti, le tende alle finestre, i piatti nella credenza. Sul tavolino in salotto c’era persino una tazza, mezza piena. Accanto, un posacenere con una sigaretta a metà.
Daniele si fermò un attimo, guardando attorno. Era tutto così… fermo. Come se il tempo si fosse bloccato.
Iniziò a girare per le stanze. Ogni volta che apriva una porta, la polvere si alzava in piccoli sbuffi. Ma tutto era in ordine. Non sembrava una casa abbandonata, sembrava più una casa dimenticata. Nessun segno di furto, di vandalismo. Solo silenzio.
Tornò in salotto e si mise a sfogliare i documenti dell’eredità, ma qualcosa lo disturbava. Aveva la sensazione di non essere solo. Ogni tanto gli sembrava di sentire un fruscio, come passi al piano di sopra. Ma quando tendeva l’orecchio, tutto tornava in silenzio.
Poi, verso sera, sentì un tonfo. Secco. Come un oggetto caduto sul pavimento. Alzò lo sguardo, raggelato. Veniva da sopra. Si disse che forse era un animale. O il legno che si dilatava col cambio di temperatura. Ma non ci credeva davvero. Decise di salire.
La scala era coperta di polvere ma non scricchiolava. Sembrava solida. Anche tropp. Al piano di sopra, tutte le porte erano chiuse, tranne una. In fondo al corridoio. Era socchiusa. Dentro, una camera da letto perfettamente ordinata. Letto rifatto, tende tirate, comodino con una lampada. Su una sedia, accanto alla finestra, c’era un’agenda.
Daniele si avvicinò. Era rossa, con la copertina rigida. Sembrava nuova. La aprì. Dentro c’erano appuntamenti, liste della spesa, cose normali. “Comprare il pane. Controllare la caldaia. Chiudere la finestra dello studio.” Ma poi, sfogliando, vide una data: 17 maggio 2025. Era tra pochi giorni. Sotto, in una scrittura chiara:
“Lui torna. Non dire nulla.”
Daniele sentì la pelle d’oca lungo le braccia. Sfogliò indietro: le pagine erano tutte piene, scritte giorno per giorno. Ma non c’erano segni del tempo. Nessuna piega, nessuna macchia. Come se fossero state scritte… ieri. O oggi.
Un altro rumore. Questa volta alle sue spalle. Si voltò di scatto. Niente. Ma avrebbe giurato di aver sentito qualcosa muoversi nel corridoio.
Scese le scale in fretta. Il salotto era identico a prima. O quasi. Guardò il tavolino. La tazza era ancora lì, ma… il posacenere era vuoto. La sigaretta non c’era più.
Si frugò in tasca, tirò fuori il cellulare. Voleva controllare l’orario. Lo schermo tremolava, come se qualcosa interferisse. Poi si accese da solo la funzione “registratore vocale”.
Premette “play”.
All’inizio c’era solo silenzio. Poi il rumore dei suoi passi. Il suo respiro. Poi, una voce.
Una voce calma, femminile. Che diceva:
«Non dovevi tornare.»
Daniele rimase immobile. La voce non era la sua. Né quella di qualcuno che aveva incontrato. Eppure sembrava… dentro la casa. Come se fosse ancora lì.
In quel momento, il vecchio orologio a pendolo fece un rumore. Un clack secco. Poi, ticchettò. Si era riacceso. Ma le lancette non segnavano più le 15:16. Ora segnavano le 17:05.
Daniele non aveva idea di che ore fossero davvero.
Ma, per la prima volta da quando era entrato, capì che forse, quella casa, non era vuota affatto.
Chiara Manfredi, I LES