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Cala il sipario sulla trilogia di Pablo Larrain: dopo Jacqueline Kennedy (“Jackie”, 2016) e Lady Diana (“Spencer”, 2021), il regista cileno conclude la narrazione del secondo ‘900, arrivando anche all’81esima edizione del Festival di Venezia, con la soprano Maria Callas, terminando così le tre icone femminili che hanno definito il concetto di contemporaneità ed intramontabilità.

Insieme allo sceneggiatore Steven Knight, Larrain sceglie di focalizzarsi sull’ultima settimana di vita della Callas, deceduta a Parigi il 16 settembre 1977 a 53 anni, incominciando il film proprio dalla sua morte: in mezzo ai diversi poliziotti spicca il corpo esanime di Madame Callas, steso nel suo salotto.

Grazie a una serie di flashback, la storia ripercorre eventi fondamentali della sua vita, soffermandosi in particolare sul declino fisico e psichico della donna. Ella, infatti, trascorre i giorni senza mangiare e assumendo soltanto farmaci antidepressivi, come il “Mandrax”, nella speranza di poter tornare a cantare come un tempo.

La trama viene divisa in tre archi narrativi differenti, mescolando il puro biografismo con il delirio e la finzione, riuscendo a descrivere perfettamente la lotta interiore de “la Divina” con il proprio passato.

L’idea di Larrain è geniale: un ritratto della vita di Maria, che lei, sotto effetto del “Mandrax”, confessa a una troupe cinematografica immaginaria, con lo scopo di comporre la sua autobiografia. Vengono mostrati i momenti chiave della sua vita: i grandi palchi calcati, l’importante vita mondana con le celebrità più influenti, la complessa relazione con l’armatore greco Aristotele Onassis, per lei grande amore che consumò fino all’ultimo.

Al volto di Maria, il regista assegna l’attrice Angelina Jolie, ben poco simile alla cantante per aspetto, ma che la impersona brillantemente nel temperamento.

Invece, ad interpretare il maggiordomo Ferruccio e la governante Bruna, vengono associati rispettivamente Pierfrancesco Favino e Alba Rohrwacher: un cast davvero eccezionale, formato non per un film, bensì per un’opera lirica.

“La mia vita è l’opera”.

Larrain sceglie di dipingere una Maria Callas ormai schiava dei farmaci, abbandonata alle fragilità e alle paure della vita, che cerca di cantare ancora la propria essenza con le sue ultime forze vitali: una melodia ormai sfinita ed esaurita.

Avvolta da una profonda solitudine e malinconia, la Callas dunque diventa l’eroina tragica delle sue opere, ancora con un’aria da prima donna, ma consapevole della propria fine.

Nonostante tutto, ella è ancora legata a quel passato ricco di successi e avvolto dalla fama, ma che tuttavia le ha causato delle ferite troppo profonde per essere dimenticate. Come, ad esempio, dice alla sorella Yakinthi (interpretata da Valeria Golino) durante il loro ultimo incontro, Maria non è più capace di “serrare quella porta”, per slegare la sua arte dalla vita reale; per mettere fine alle sue sofferenze.

Fedeli a lei rimangono soltanto i due domestici: Bruna e Ferruccio, che la accudiscono e la proteggono dalle angosce e dai tormenti, essendo incapace di arginarli, incarnando le figure genitoriali da lei tanto desiderate.

Dopo anni di arie donate al pubblico, Maria, per l’atto finale, si immerge in un profondo egoismo, volendo finalmente tornare a cantare soltanto per sé stessa. Ed è proprio così che si compie la sua morte, cantando per l’ultima volta la sua grandezza.

Jolie riesce ad interpretarla perfettamente: ella mette in scena una Callas toccante e struggente, saturata dalla propria carriera e affievolita da un amore pagato caramente.

“L’amour est un oiseau rebelle”.

Una parte molto importante del film è dedicata alla relazione che “la Divina” intraprende con l’armatore greco Aristotele Onassis (interpretato da Haluk Bilginer). Fin dall’inizio, Maria percepisce il dolore che quell’amore le causerà, ma nonostante ciò, non riesce a resistere al fascino del suo adulatore. I due passeranno molti momenti felici insieme, finché lui non sceglierà di sposare la vedova di Kennedy. Per lei questo sarà un colpo fatale, con cui inizierà il suo declino. Sebbene i modi meschini con cui ha vissuto quell’amore, esponendo Maria come una “conquista” su un piedistallo, egli la chiamerà in punto di morte, per esprimerle il suo rimorso, annunciando di aspettarla, una volta “uscita di scena”.

Il prezzo di diventare una leggenda.

Secondo il mio punto di vista, reputo questo film una splendida lettura della vita della Callas, il quale approfondisce la psicologia della donna e molti suoi dettagli, ma lasciando in sospeso la sua storia passata, data quasi per scontata allo spettatore.

Invece, molto interessante è la scelta registica di mescolare i primi esordi de “la Divina” con l’audio originale della cantante, e le prove riservate solamente alla sua immaginazione, in cui la stessa Angelina si esibisce canoramente.

Jolie compie una trasformazione piuttosto notevole, rappresentando in maniera realistica il rimpianto e l’orgoglio ferito della madame, mascherati dalla testa alta. Molto affascinanti sono le scene canore, in cui l’attrice esprime tutto il dolore e la rabbia di un’artista che vede svanire il proprio dono ineguagliabile. Insieme a lei, brillano sulla scena anche i suoi compagni: Pierfrancesco Favino e Alba Rohrwacher, che manifestano la loro presenza in modo silenzioso, sapendo di essere gli ultimi che vedranno spegnersi “la stella”.

Infine, osservando questa storia, è possibile notare ciò che richiede diventare una leggenda, ovvero una vita molto difficile e sofferta, caratteristica che accomuna Maria a molte altre figure famose. Ma allora, vale davvero la pena di pagare il successo con un prezzo così alto?

Matteo Lerda, III SCI

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